Da giovane facevo un sogno ricorrente, uno di quelli da cui ci si sveglia con dentro un urlo che resta affogato in gola, con il sangue che batte in testa e ti spalanca gli occhi che non possono vedere nulla di ciò che di familiare c’è nella stanza perché ancora guardano là. Là c’è un castello di legno, come quelli nei giochi dei bambini, assi sconnesse e un poco marcite, parti mancanti, tetti crollati…il castello sorge su una roccia e intorno ha il mare; sulla roccia un leone riposa tranquillo seguendo il volo di un’aquila che plana e gli si posa a fianco. E’ la sua compagna. Sono io. Vorrei restare con lui, sotto quel sole. Per sempre. Poi d’improvviso corridoi tortuosi, passerelle sconnesse, ponti levatoi, stanze abbandonate e calcinacci negli angoli. Li percorro tra polvere e paura fino a un cortile interno che si spalanca come un antico anfiteatro. Pieno di luce. Una luce abbagliante. Spaventosa.
Il paradosso di un risveglio che non consola, che non ha la forza di mettere un muro tra i due mondi. La membrana del sogno, come una placenta che ancora mi avvolge. Un amico psichiatra una volta mi ha detto che un incubo è un’elaborazione fallita.
E’ che siam fatti di pareti interiori, a volte fragili come un muro di mattoni forati dove dentro le formiche hanno il nido, a volte spesse come muri portanti dove una crepa disegna un profilo. Siam fatti di corridoi e passaggi segreti, abbiamo cantine dove si sono ammucchiati oggetti che non usiamo più, forse giocattoli, forse quaderni…abbiamo chiavi che non si sa più quali stanze apriranno e lunghe scale da salire o da scendere. A volte un terrazzo per guardare fuori. A volte una soffitta in cui andarsi a nascondere.
Il castello di legno si trasformò molto presto in un antico, maestoso, maniero di pietra. Pesante, come il mio umore in quegli anni. Uguali i corridoi in cui la mia mente cercava una porta. O una via di fuga? Muri scrostati, detriti, stanze deserte fredde umide e sempre quel terrore che si ripeteva, come se in sogno già sapessi dove mi avrebbero condotto quei passi fatti al ritmo incerto del cuore. Non più aquila, non più in volo: spaventata, ero io che camminavo verso quella scena vuota da tragedia antica. Verso quella luce. Quella luce che diceva di tutto il buio che stavo affrontando in analisi.
Per questo Anna, la mia dottoressa, fu felice- di quella felicità che sentii attaccata alla nuca come un sorriso che mi sosteneva la testa su quella poltrona dove ho passato in tutto sei anni della mia esistenza- quando, dopo molto tempo, cominciai a sognarmi dentro a qualcosa che somigliava un poco di più a una casa. Anche io lo ero, nonostante il terrore di quel vuoto luminoso che sembrava rincorrermi o al quale io,”inconsciamente “ stavo andando incontro.
La casa… In verità era una dimora austera, sconosciuta, con un grande salone delle feste e una lunga tavola apparecchiata che io guardavo spiando da una loggia che, in alto, girava tutto intorno alla stanza e ne segnava l’intero perimetro. Una luce calda illuminava il salone e sapevo- come si sanno le cose nei sogni- che lì abitava mio padre. Ma io non ero parte di quel calore. Non appartenevo ancora, o forse non più, a quel luogo. Ricordo ancora con precisione che da quel sogno mi svegliai con un senso di commozione profonda, come se avessi salutato una parte di me e che, raccontandolo alla dottoressa, verbalizzai chiaramente il fatto di sentirmi orfana.
Di nuovo una carezza leggera mi scompigliò i capelli. Quei capelli che cercavo di disciplinare con fasce multicolori messe a mo’ di cerchietto e che Anna quel giorno, quando ci salutammo, mi disse che potevo anche sciogliere…tanto i pensieri ormai non mi sarebbero più scappati via.
Ci sono voluti molti anni e molte case sconosciute per arrivare a casa. Nei sogni imbiancavo pareti, stendevo carte da parati a fiori, riorganizzavo cucine inondate di sole e cibi buoni, pulivo i vetri di grandi finestre, trovavo mobili bellissimi appartenuti a improbabili nonne o bisnonne o amiche lontane. C’è stato un lungo periodo in cui mi spaventava l’idea di uscire da quei muri che mi contenevano, la paura di ritrovare, in fondo a una via, nella piazza dietro l’angolo quella luce abbagliante che era solo l’altra faccia della mia ombra. Quella senza la quale non avrei mai trovato la strada di casa.
Io sono una arredatrice, disegnare le case degli altri è il mio lavoro da sempre, ma non credo che sia questo resto diurno il responsabile del significato potente che l’immagine della casa ha nella mia storia personale.
Forse nella storia e nei sogni di tutti.
Certo il mio lavoro mi mette ogni giorno a contatto con persone che immaginano la loro casa, come diventerà, quale sarà l’atmosfera da creare in quegli spazi ancora disabitati.
Riconosco spesso, nelle loro parole, il peso e il carico di un investimento simbolico fortissimo attorno a questo nido in costruzione. La prima cosa che faccio è ascoltare per cogliere almeno un riflesso sfuggito ai loro sogni, a un’immagine che racconta già una storia. Non la storia di ciò che sarà, ancora tutta da costruire, ma di ciò che è già stato.
Monica Varroni- Interior designer- appassionata di psicologia, di storie da raccontare e di case.
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